Se toccano una toccano tutte

“Se toccano una toccano tutte”

Il corteo a Civitanova Marche del 6 agosto è stato un momento necessario per gridare ad alta voce il nome di Alika Ogorchukwu, per essere vicini e vicine alla famiglia e per mettere al centro la parola “razzismo” negata a più riprese dai giornali, dalle forze dell’ordine e dagli esponenti politici.

Le persone presenti si sono mosse da tutta l’Italia, da Milano a Palermo, perché in questo paese la storia continua a ripetersi, perché la persona che porta nel proprio sangue e nella propria storia l’Africa continua a valere di meno.

La rabbia, la tristezza, le lacrime, le voci e i pugni chiusi alzati hanno riempito un pomeriggio molto caldo, cercando di colmare quegli spazi di indifferenza verso il corpo nero.

Sono una di quelle persone che ha scelto di non guardare il video: mi avrebbe fatto troppo male, ho odiato la leggerezza con cui è circolato alimentando la pornografia del dolore.

Quando ho visto con i miei occhi il luogo dell’omicidio, ho provato un dolore molto chiaro alle tempie, come se si stringessero schiacciandomi il cervello, come se la testa mi potesse scoppiare da un momento all’altro.

Non è successo, ma per lo meno qualcosa è uscito sotto forma di lacrime seduto a pochi metri da quel marciapiede, stretto tra compagni e compagne.

Le persone che hanno preso parola avevano le vene grosse come tubature, perché fare più rumore del silenzio della città nei confronti di Alika richiede forza.

Una forza che nasce dal dolore di una ferita che si apre ad ogni discriminazione esplicita o più silente, in ogni occasione in cui la nostra presenza viene tollerata, ma mai legittimata, rispettata e accolta.

Il 6 agosto è stato necessario perché nel guardarci negli occhi, nel proteggerci le spalle a vicenda, nell’essere uno specchio ed un contenitore per le nostre sofferenze, sapevamo di poter trovare la capacità di trasformare tutto questo.

Trasformare un ambiente che sente di poter “escludere energicamente” la matrice razzista; trasformare un luogo che avrebbe voluto la manifestazione come una condanna della “violenza in ogni sua forma”, invisibilizzando una volta di più cosa significhi essere una persona nera in Italia; trasformare gli sguardi quasi straniti di alcuni residenti dall’alto dei loro balconi, come se fosse un po’ una sorpresa vedere afrodiscendenti scendere in piazza.

Noi purtroppo non riusciamo più ad essere sorpresǝ, è un lusso per chi ha in mano un privilegio che non riconosce. Noi sappiamo esattamente cosa significa abitare un certo corpo, per questo i sentimenti di rabbia, paura, esclusione li conosciamo a memoria come filastrocche, perché è il terreno sopra il quale siamo cresciutǝ. Per questo le lacrime di Charity Oriachi sono comprese perfettamente in tutta la loro disperazione.

Alika Ogorchukwu è stato ucciso su un marciapiede di fronte ad un negozio, in una via frequentata, a pochi passi dal municipio, tra persone che hanno ritenuto che la sua vita valesse meno, che si potesse riprendere e poi andarsene. Avere nel telefono il video di un’uccisione e non aver fatto nulla per evitare che ciò succedesse. Le maglie bianche e verdi insieme alle voci dei partecipanti ricordano il suo nome, quando in molti hanno deciso che non meritasse nemmeno quello e che fosse più adatto “clandestino”, “nigeriano”, “ambulante”.

Vorremmo poter chiamare l’Italia casa e viverla come tale, vorremmo non dover provare questo dolore.

Ma non siamo solǝ e quel pomeriggio lo dimostra. Non ci fermeremo nonostante tutto e quel pomeriggio lo dimostra. Insieme e quel pomeriggio lo dimostra.

Ad Alika, alla sua famiglia e a tutta la comunità che insieme si è stretta e unita cammina avanti.

 

Murphy Tomadin 

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