Porsi domande

Vorrei rivolgermi a coloro che pensano che in Italia il razzismo non esista, a coloro che ritengono che i pochi episodi riportati dai media siano causati da ignoranza, superficialità e frustrazione casualmente di stampo razzista. 

Vorrei partire dicendo che questa convinzione rivela unicamente la posizione di privilegio di una persona per la quale legittimare o meno il razzismo sistemico non cambia il proprio modo di muoversi e di abitare gli spazi, per la quale non mutano in alcuna misura le modalità di vivere e di relazionarsi in società. Ci sono però, nel frattempo, due dinamiche molto nocive che avanzano silenziose. 

La prima riguarda il razzismo sistemico in sé: come fa qualcosa che non ha nome (almeno per alcuni) ad essere riconosciuto e visto da tutte le persone? Se un atto di discriminazione non viene chiamato con il suo nome, com’è possibile legittimarlo agli occhi di coloro che non ne sono colpiti? Questa prima dinamica si lega strettamente alla seconda, che riassumerò con il termine di “disconoscimento”. In questo caso il disconoscimento si configura come un ulteriore schema di oppressione perpetuato ai danni della persona razzializzata, la quale si ritrova costretta a chiedersi: “Come fa un atto discriminatorio ad essere denunciato a voce alta se il contesto non è disegnato per accogliere e riconoscere quanto accaduto?”; si crea così una situazione quasi paradossale per la persona razzializzata, poiché essa si trova nella posizione di dover negare l’esperienza appena vissuta in un contesto che non la legittima oppure di legittimare la propria esperienza in un contesto che la nega. Quale può essere il risultato di una o l’altra scelta se non una frammentazione interna? Niente ha significato nella nostra vita se non è messo in relazione con l’altro: il cielo non è blu se qualcun altro non lo vede con noi e lo conferma; il nostro modo di vestire diventa bello o meno bello in relazione ad un’altra persona che lo giudica; siamo introversi, timidi, simpatici, arroganti, egoisti solo in relazione a un contesto. In questo caso non usare il corretto termine di “razzismo sistemico” ha due conseguenze, una è il disconoscimento di cui sopra scritto, la seconda è che gli atti discriminatori continueranno a verificarsi e non avranno nome per la maggior parte delle persone se non per la comunità stessa e per le poche persone al di fuori di essa ma che possiamo definire alleati in questa lotta. 

Con queste parole vorrei che le persone si facessero delle domande sulla maniera in cui si relazionano alle persone razzializzate o a determinate notizie che le riguardano perché, quasi sempre, tutto ciò che in anni e anni si è sedimentato dentro di noi – certezze, posizioni, giudizi – rispetto a come vediamo il mondo, risulta difficile da modificare. Quando apprendiamo qualcosa di nuovo, questa nuova nozione deve combattere con tutto ciò che fino a quel punto della vita abbiamo considerato come realtà. Per questo è molto più semplice imparare rispetto a disimparare. Le domande portano ad apprendere qualcosa di nuovo e inevitabilmente a mettere in discussione e a decostruire qualcosa di appreso in precedenza. 

La narrativa del “siamo tutti uguali” funziona come deterrente, per la persona bianca, al farsi domande sul proprio modo di relazionarsi e di pensare ai vari gruppi discriminati. Se siamo tutti uguali allora si può dire tutto, niente può fare male, tutto si dice per scherzare, non bisogna mai prendersela. Ma non siamo tutti uguali, in quanto afrodiscendenti non abbiamo il lusso di poter essere subito visti per ciò che siamo come individui. Il colore della nostra pelle ha inciso come tatuaggi sulla nostra esistenza credenze stereotipiche e pregiudizievoli che parlano a un volume molto più alto di quanto possiamo fare noi con la nostra voce. 

Per questo farsi domande è uno degli strumenti più potenti e trasformativi che ci siano, perché inesorabilmente crea una crepa in una costruzione monolitica di certezze. 

Vorrei che una persona non razzializzata leggendo queste righe si chiedesse “È possibile che se non fossi una persona bianca potrei avere maggiori difficoltà? C’è qualcosa di mio che mi vedrei negato?”. Vorrei che quando si parla di razzismo sistemico ci fossero più domande come “So veramente cosa significa razzismo sistemico?” piuttosto che affermazioni come “In Italia non siamo razzisti, guarda cosa succede negli Stati Uniti”. 

Vorrei dire a voce alta che siamo stanchi di doverci allenare e farci i muscoli per sostenere gli sguardi e le parole che ci fanno sentire sbagliati, che ci fanno pensare “Non sarebbe stato tutto più semplice se fossi stata una persona bianca?”. 

Vorrei che le voci nere fossero ascoltate e non solo considerate come un’eccezionalità nel momento in cui viene denunciata una dinamica di stampo razzista. Non possiamo parlare di eccezioni quando utilizziamo il termine razzismo sistemico perché lo si intende come presente a livello normativo all’interno della nostra società: dalle leggi assenti in tema di diritto di cittadinanza, alle politiche migratorie che (non solo) in questi mesi esercitano un trattamento diverso in base alla provenienza; dalle difficoltà di accesso ai servizi, al funzionario statale che al posto di chiedere un documento d’identità chiede il permesso di soggiorno; dal comportamento delle forze dell’ordine, alle battute che fanno ridere solo coloro che le fanno. 

E l’elenco potrebbe tristemente allungarsi a dismisura. 

Non pretendo che tutti possano capire al 100% ciò che una persona afrodiscendente vive quotidianamente sul suolo italiano, ma vorrei che tutti si domandassero “È possibile che con i miei comportamenti in una certa misura stia collaborando al perdurare del razzismo sistemico?”. 

Vorrei più domande – da parte di chi, vivendo nel privilegio, tende a non interrogarsi – e che le risposte arrivassero – proprio – dallo sforzo di porsi delle domande. 

 

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