Quando mi chiedono quale sia per me l’esperienza più significativa in questo percorso di AFAR, sono in difficoltà nel rispondere.
La difficoltà non sta tanto nella scelta di ciò che mi porto dietro, quanto più nella spiegazione stessa di ciò che mi porto dentro.
Champs ha un ambizioso compito, non solo riuscire a riunire menti e competenze che si stanno spendendo nella lotta al razzismo anti-nero ed all’afrofobia ed il lavoro delle associazioni, ma anche riuscire a mettere a sistema ed immaginarsi un nuovo orizzonte di quello che è l’antirazzismo in Italia stessa. Vivere questo tipo di lotta qui, in cui le realtà sono molto più parcellizzate, in cui quelle che nascono vivono ancora di una fascinazione del mondo afroamericano ritrovandosi impreparate alle sfide presenti in questo Paese non è semplice. Delle volte è come se mancasse un terreno comune su cui muoversi e confrontarsi per poi prendere una direzione. E’ difficile poiché spesso ciò che si immagina come impegnarsi nella lotta all’antirazzismo si alterna alla pornografia del dolore destinata al ludibrio del white-gaze – sguardo bianco – , quello di una società biancocentrica che davanti all’esperienza di una persona razzializzata, ad esempio una persona nera, può rifuggiarsi nella propria commozione per deresponsabilizzarsi. Altre volte invece l’impegno per la lotta antirazzista viene ridotto a formazione nei confronti delle persone bianche.
Vi è una frattura profonda in Italia fra l’esperienza personale ed il ragionamento sistemico, fra la necessità di raccontarsi per far conoscere ed il ragionamento e le condivisioni di pratiche per decostruire. Questa frattura si sana con la creazione di una comunità ed il tentativo che sta facendo Champs è proprio questo: provare a creare una comunità.
Questo l’ho capito nel viaggio a Milano, per la registrazione dei video e per l’inizio di discussione sui Podcast.
L’incontro con gli altri e le altre AFAR è stato importante poiché è stato possibile in quell’ambito ricreare un momento di raccordo fra l’esperienza personale, che non trova spazio in cui raccontarsi e riflettersi, ed i grandi discorsi sistemici, che troppo spesso sembrano così distanti. In tutti quei volti, in quei sorrisi, negli sguardi di rabbia e dolcezza ho trovato una fiamma, una fiamma che illumina una porzione di strada col suo alone di luce. Quella fiamma è incendiaria come la nostra rabbia, calda come la cura che la società non ci ha mai insegnato, ma che abbiamo comunque scelto di imparare e trasmettere. Quella fiamma illumina col suo alone, e quell’alone è la comunità stessa.
La comunità non è semplicemente un insieme di persone con lo stesso colore di pelle, lo stesso genere, lo stesso orientamento sessuale, la Comunità è uno spazio sicuro in cui rivendicare il proprio diritto alla rabbia, alla fragilità, è lo spazio in cui si coltiva e cresce l’amore, nel senso che intendeva bell hooks in All about Love, è lo spazio in cui si può aprire uno squarcio nel reale progettando – oltre che immaginando – una nuova idea di futuro.
La Comunità è uno spazio in cui riconoscersi intimamente, ma anche un laboratorio di pratiche politiche in cui le proprie competenze sono messe a disposizione per comprendere come sfidare le Istituzioni rispetto ai grandi temi della violenza delle forze dell’ordine, o della cittadinanza o dell’immigrazione.
Quella giornata è stata la rivelazione del fatto che quello spazio è una necessità imprescindibile per la mia idea di lotta, ma anche per la mia esperienza di crescita come soggettività razzializzata come nera, che, come tante persone afrodiscendenti, non ha conosciuto una comunità lontana da micro aggressioni razziste, o capace di comprendere questo lato della mia vita così visibile tramite l’epidermide.
Per molte persone questa necessità può essere vista come un qualcosa di escludente, ma mi viene in mente un’intervista di Toni Morrison. Raccontava di come una sua lettrice le disse di averla amata per aver scritto The Bluest Eye, ma anche di averla odiata perché non avrebbero voluto che loro sapessero. Tracciare una piccola dimensione di intimità e sicurezza è necessario anche per chi lavora nel sociale o chi è attivista nei diritti civili, la materia è intima, delicata ed è necessario tornare ad una Stanza tutta per sé in cui ricaricarsi, lontano da quell’omino bianco che siede sulle nostre spalle, pronto a vedere cosa facciamo o non facciamo.
Mi ci è voluto un po’, ma senza quella giornata, solo fra noi, non avrei mai capito l’urgenza di non dover stare nuovamente sotto il white-gaze.